Lavoro a obiettivi e ‘giorni anarchici’. Anche per la legge

lavoro a obiettivi

Se “smartworking” ormai è entrato nel vocabolario comune, termini come “lavoro anarchico” sono – e vogliono essere – sicuramente molto più provocatori. In realtà si sta parlando dell’ultima innovazione del modo di lavorare in azienda, ovvero il lavoro ad obiettivi. E che, come avvenuto per altre novità nell’ambito, patisce l’assenza di una normativa adeguata.

Per chi è abituato al lavoro autonomo, in realtà, è un po’ come aver scoperto l’acqua calda. Per le aziende e i loro meccanismi interni, però, è sicuramente qualcosa di diverso, soprattutto in Italia. E proprio negli ultimi tempi l’azienda veneta Velvet Media si è voluta innovare attraverso un test su 150 dipendenti, anche se già da prima questo genere di esempi si trovavano in Sicilia, con lo studio di consulenza di Samantha Di Laura.

Lavoro a obiettivi: quando il lavoratore ‘dà il tempo’

Come dice lo stesso nome, il lavoro a obiettivi non prevede orari predefiniti, quanto piuttosto il raggiungimento di delle richieste del datore di lavoro. Questo vuol dire che ciò che conta è il risultato, e non come lo si raggiunge.

Chiaramente, con degli accorgimenti che rendano tutto questo possibile. “La flessibilità va inquadrata all’interno di alcune regole generali – spiega Samantha Di Laura – affinché non si vada poi a finire nel caos totale”. Ma, in fondo, soprattutto all’interno di una piccola azienda, questo vuol dire che spesso fare lavoro a obiettivi consiste nel venirsi incontro.

Necessità di dialogo. L’importanza dell’ambiente lavorativo

Di Laura fornisce degli esempi che si possono vedere nella sua Scirocco Ethical Management (che opera nella consulenza “etica” alle aziende siciliane e non). “Una collaboratrice, per sua forma mentis, ha bisogno di lavorare all’interno di un orario definito e con compiti specifici – spiega – A lei, quindi, è stato affidato il presidio degli uffici”.

Con le altre, invece, l’accordo viene fatto comunemente di settimana in settimana. Il lavoro a obiettivi, in un’impresa come quella di Samantha Di Laura, vuol dire avere una dose di flessibilità necessaria quando si lavora “con un team di donne impegnate a conciliare vita familiare e professionale“. Ed è iniziato quasi come un gioco, proponendo alle collaboratrici di prendersi una giornata di “lavoro anarchico”, ovvero secondo i propri ritmi e bisogni.

Si può perciò dire che lavorare per obiettivi il più delle volte richiede a un’azienda di creare un ambiente lavorativo in cui il dialogo è non solo possibile, ma valorizzato. D’altronde, soltanto attraverso gli accordi tra i lavoratori si può far funzionare questo genere di schema.

Il lavoro a obiettivi “in grande”: il caso Velvet Media

Il tempo come misura di produttività non è più tra gli interessi nemmeno di un’azienda veneta, la Velvet Media. Si tratta di un progetto che ha preso il nome di “MYWAY Work”, ovvero il lavoro “a modo mio”, e che oggi sta coinvolgendo i dipendenti dell’impresa, che si occupa di marketing digitale.

All’interno di un comunicato stampa, Velvet Media dichiara che la programmazione del lavoro a obiettivi è iniziata con la formazione dei capi dipartimento. Sono loro, infatti, che attraverso le nuove competenze acquisite nell’ambito della distribuzione del lavoro, inizieranno a fornire compiti in modo più direzionato ai risultati finali ai propri team.

In questo modo le commissioni saranno svolte nell’arco di tempo richiesto, ma secondo i ritmi di ciascuno. Con tanto di libertà nella richiesta di ferie e permessi, oppure di lavorare prima dell’alba o di notte. Tutto ciò fa parte di un progetto di miglioramento della qualità del lavoro all’interno dell’impresa guidata da Bassel Bakdounes. “Contiamo di migliorare la produttività togliendo costrizioni frutto di un retaggio culturale anacronistico – spiega il CEO – e dando invece massima libertà e fiducia alle persone“.

Il vuoto normativo sul lavoro a obiettivi. Un problema

A fronte di questo genere di innovazione, l’Italia resta indietro dal punto di vista legale. Come spiega Bakdounes, “siamo di fronte ad un vuoto normativo”. Se, infatti, esistono contratti di telelavoro o smart working, è più difficile trovarne che considerino condizioni di lavoro così ibride e flessibili come quelle del lavoro a obiettivi.

Questo è non solo un problema dal punto di vista del datore di lavoro, ma soprattutto dei dipendenti. L’assenza di una normativa precisa in merito a questo genere di contratto, infatti, comporta dei rischi per i loro diritti e tutele, ed urge un’ulteriore innovazione.

Ad oggi, buona parte del lavoro a obiettivi viene infatti integrata all’interno di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co.co.co), che consistono in forme di lavoro parasubordinato, oppure attraverso altre forme di lavoro autonomo. Di fatto, però, quello del lavoro a obiettivi non è necessariamente lavoro autonomo, anzi. E, se non lo è, non dovrebbe essere trattato come tale nemmeno dal legislatore.

Solo così si può avere ciò che desiderano sia datore che dipendente. Perché, alla fine, gli obiettivi sono ciò che conta di più per buona parte degli imprenditori. Lo diceva anche Diego Planeta (fondatore dell’omonima casa vinicola) a Samantha Di Laura in tempi non sospetti: “Non mi importa dove e come lavora. Mi importa che raggiunga i risultati! E così avviene“.

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